Amministratori

Domini collettivi, la nuova legge ignora i commissari privi di poteri effettivi

di Fabrizio Cosentino (*)

Con una di quelle che una volta si sarebbero definite «leggine», il Parlamento ha avvertito l'esigenza di emanare nuove norme regolatrici della vasta materia sinora conosciuta (o piuttosto, disconosciuta) come «usi civici», cambiandone la dizione in «domini collettivi», senza abolire la legge fondamentale, che risale a un decreto legge del 1924.
Sembra questa l'unica vera novità della riforma, perché in realtà, tutto rimane come prima, al di là di enunciazioni di valore e di un'elencazione descrittiva della categoria dei beni collettivi. C'era bisogno di chiarimenti sul tema? Pare proprio di no.
La denominazione di usi civici era usata dal legislatore del Regno in maniera
nnicomprensiva, intendendo unificare una serie di fenomeni assai diversi tra loro, in una chiara prospettiva di smembramento e parcellizzazione della proprietà indivisa, in aderenza al modello economico di proprietà individuale emerso nel corso dei due secoli precedenti.
Si voleva «liquidare» –questa l'espressione tecnica – tutto ciò che appariva in contrasto con un concetto di proprietà singola e atomizzata, favorendo la cessazione degli usi e delle forme di proprietà collettiva, variamente denominate (usi, diritti promiscui, demanio feudale, universale, comunale, collettivo a altri ancora). L'idea – secondo un giudizio ampiamente condiviso dagli studiosi dell'epoca, derivata sul piano politico dalla rivoluzione francese e su quello economico dall'esperienza delle enclosures o recinzioni dei pascoli adottate in territorio inglese - era che la proprietà, per essere produttiva, non poteva che appartenere a un unico proprietario, un singolo dominus. Non era nemmeno estraneo alla volontà di chi allora scriveva le leggi – siamo agli inizi del Fascismo – un disegno politico inteso a fare ordine e a reprimere ogni forma di contestazione e di sollevamento popolare contro i nuovi, rigidi schemi proprietari

Il commissario «agente delegato»
Il commissario per la liquidazione degli usi civici (così si chiama la figura giuridica cui viene attribuita una sfera di competenza su base regionale) diventa così una sorta di «agente delegato», dotato di poteri speciali e straordinari, amministrativi e giudiziari allo stesso tempo, destinati nelle intenzioni a esaurirsi in breve tempo.
Non è stato così, nonostante un primo forte impulso, vuoi per la complessità degli accertamenti, vuoi per gli sconvolgimenti della seconda guerra mondiale, vuoi per l'insufficiente operato delle regioni, alle quali nel 1977 erano trasferite le sole funzioni amministrative, vuoi infine per un naturale esaurirsi del fenomeno, dovuto al forte sviluppo economico degli anni '60, che ha portato a un graduale abbandono dei pascoli e delle terre agricole in favore dell'edificabilità dei suoli, a ripetute correnti migratorie, e alla repentina trasformazione del ceto rurale in operaio e impiegatizio.
Nel frattempo, il giudizio di sfavore verso ogni forma di detenzione in comune delle terre ha ben presto perso il suo slancio, e si è rivalutato il valore originario degli usi civici (o domini collettivi) sia come «diverso modo di possedere», sia come bene primario, in funzione di tutela dell'ambiente salubre, di freno alle pretese di cementificazione del territorio. A partire dagli anni '80 è gradualmente emersa una inaspettata funzione degli usi civici, nella loro qualità di beni ambientali, ossia di beni dotati di una speciale protezione a garanzia della stabilità e dell'integrità del territorio, sotto l'ombrello protettivo della loro inalterabile destinazione, attraverso i forti presidi dell'inalienabilità, indivisibilità, imprescrittibilità e inusucapibilità.
I terreni gravati da usi civici non sono commerciabili, non possono essere frazionati, non valgono indiscriminate situazioni di «possesso», la loro destinazione non si perde con il passare del tempo, purché se ne ritrovi traccia nella memoria collettiva, attraverso gli antichi rilievi e documenti (determinanti in questo caso al sud il catasto onciario, ad es.), e l'ampio utilizzo della presunzione «ubi feuda ibi demania», a stabilire che laddove la terra risulti «infeudata» la sua origine non può che derivare da una preesistente proprietà collettiva.

Di recente, invece
Di recente sono state rivalutate forme collettive di proprietà di terreni - fenomeno diffuso soprattutto nelle regioni del nord Italia - tradizionalmente detenuti in proprietà collettiva, anche se pur sempre in forma «chiusa», per accedere alle quali vale la duplice regola dell'incolato (ossia della residenza) e del vincolo agnatizio o di sangue (l'appartenere a una determinata famiglia, da sempre presente sul territorio, per linea maschile). Si tratta di forme di tutela del territorio dalla occupazione dei «forestieri» di antichissima tradizione, che presuppongono una gestione dei fondi riservati in base a regole diverse da quelle della proprietà individuale, da parte di collettività variamente denominate «regole», «società d'antichi originari», «consorterie», «vicinìe», «comunanze», «comunelle» e altre ancora in cui domina il rinvio alle consuetudini.
Cosa, piuttosto, ci si sarebbe aspettato da un provvedimento di riordino della materia?
In un'epoca di forte dinamismo, in cui c'è stato un dilagante fenomeno di sfruttamento intensivo della terra, attraverso piani di zonizzazione che hanno comportato la destinazione all'edificabilità, residenziale o rivolta agli insediamenti industriali, di porzioni sempre più consistenti del territorio, fenomeno che ha visto un freno soltanto nell'incombere dell'attuale crisi economica (è stato detto che l'uomo negli ultimi tempi si è comportato come un bambino che ha scoperto le chiavi di un forziere, di un contenitore di meraviglie, che utilizza senza dar conto alle generazioni future) gli usi civici possono e devono rappresentare il giusto bilanciamento degli interessi della collettività nell'utilizzo delle risorse naturali.

Riqualificare i commissari per prevenire gli abusi del territorio
Prevenire scorretti comportamenti di Regioni ed enti locali che consentono – a vario titolo - l'occupazione del territorio gravato da usi civici – stimato nell'attuale consistenza di circa 5-7 milioni di ettari su base nazionale – da parte di soggetti utilizzatori privati, in modo incompatibile con la loro naturale destinazione, attraverso permessi di edificabilità o di taglio boschivo, spesso emanati senza alcuna indagine sull'esistenza di vincoli derivanti appunto da usi civici, e solo per contingenti ragioni di cassa, indispensabile – e da più parti sollecitato – era un intervento normativo teso a riqualificare l'azione dei commissari, che oggi si muovono praticamente senza più gli strumenti di un tempo, malamente trasferiti alle regioni, e che spesso – in assenza di iniziativa da parte di gruppi associati o soggetti individuali – assistono impotenti allo snaturamento dei fondi, nonostante il perdurante riconoscimento di poteri di iniziativa d'ufficio (cosa potrà mai fare il commissario per la Calabria, Regione ad elevata percentuale di aree boschive e destinate a pascolo, con un budget di poche migliaia di euro annue, non ampliabile, sufficiente appena per le esigenze di sopravvivenza dell'ufficio?).
Perché non si è ritenuto opportuno ascoltare preventivamente i quattordici commissari che operano sull'intero territorio nazionale? L'idea poteva essere quella di modellare la figura del commissario sulla falsariga di un pubblico ministero, dotandolo di mezzi adeguati a effettuare istruttorie, raccogliere dati, svolgere accertamenti tecnici preventivi, richiedere atti di sequestro e provvedimenti restitutori, rivolgendosi a un giudice terzo e imparziale, restituendo così vitalità a una figura storica e oggi svalutata, presente nel nostro ordinamento sin dall'emanazione delle «leggi eversive della feudalità», che molto potrebbe fare, per competenza e conoscenza del territorio, in attuazione delle nuove, pur corrette indicazioni sui domini collettivi, affinché queste non restino parole vuote e mere affermazioni di principio.

(*) Commissario per gli usi civici della Calabria

La legge n. 168/2017

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