Personale

Niente stabilizzazione per la collaborazione coordinata e continuativa

di Federico Gavioli

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 3384 dell'8 febbraio 2017, ha affermato che la stipula di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa con un'amministrazione pubblica non può mai determinare la conversione del rapporto subordinato a tempo indeterminato.

Il contenzioso
Un collaboratore aveva prestato lavoro in forza di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa in favore di un Comune in qualità di educatore, svolgendo la propria prestazione presso una casa famiglia; il suo contratto, tuttavia, era stato stipulato con il Comune molto tempo dopo. Il lavoratore aveva agito in giudizio per ottenere il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro alle dipendenze del Comune a decorrere dal dicembre 2002 e non dalla data di stipula del contratto avvenuta nel gennaio del 2003, con condanna dell'amministrazione convenuta al pagamento delle differenze retributive tra il trattamento stipendiale proprio dell'inquadramento in categoaria C1 del Ccnl «comparto Enti locali» e quanto percepito dal ricorrente nello stesso periodo. La Corte di appello, confermando la pronuncia del Tribunale, ha accolto l'eccezione preliminare di prescrizione dei crediti e ha respinto la domanda di conversione del rapporto, ritenendo ostativa la circostanza della concomitante attività lavorativa svolta dal ricorrente in favore di altro datore di lavoro, in violazione del dovere di esclusività della prestazione alle dipendenze di un ente pubblico. Il lavoratore avverso la sentenza sfavorevole è ricorso in Cassazione.

L'analisi della Cassazione
I giudici di legittimità evidenziano che la norma contenuta nel Testo unico (Dpr n. 3 del 1957), riguardanti il rapporto di pubblico impiego e il regime delle incompatibilità, vietano al pubblico dipendente le attività industriali, commerciali, agricole e professionali svolte in modo continuativo, intenso e professionale e dunque in modo prevalente e lucrativo. L'articolo 53 del Dlgs 165/2001, accanto alla disciplina delle incompatibilità “assolute” con lo status di pubblico dipendente sancite dal Dpr 3/1957, comportanti decadenza dell'impiego, regolamenta anche le attività non vietate, ma sottoposte a un regime autorizzatorio, nonché le attività “liberalizzate”, ossia espletabili da qualsiasi pubblico dipendente senza necessità di autorizzazione datoriale. La sentenza di appello aveva negato l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del Comune solo con il richiamo al dovere di esclusività del dipendente, così erroneamente interpretando e applicando la normativa suddetta. Il ricorrente in virtù di un contratto di prestazione di lavoro autonomo, ha chiesto la riqualificazione in rapporto alle dipendenze dell'ente locale, con riconoscimento del livello professionale di educatore di categoria C1, e la condanna del Comune ad attribuirgli tale profilo professionale e a corrispondergli le conseguenti differenze economiche. Il ricorrente ha dedotto che, contrariamente a quanto pattuito nel contratto di collaborazione autonoma, vi era stato l'assoggettamento al potere direttivo e di controllo del datore di lavoro, lo stabile inserimento del lavoratore nell'organizzazione dell'ente di appartenenza e l'osservanza di un preciso orario. Per i giudici di legittimità la stipulazione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa con un'amministrazione pubblica, al di fuori dei presupposti di legge, non può mai determinare la conversione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, potendo il lavoratore conseguire una tutela in termini meramente risarcitori, nei limiti di cui all'articolo 2126 del Codice civile, qualora il contratto di collaborazione abbia la sostanza di rapporto di lavoro subordinato, con conseguente diritto anche alla ricostruzione della posizione contributiva previdenziale. I giudici di legittimità osservano che il ricorrente non ha mai proposto una domanda risarcitoria ai sensi dell'art icolo 2126 del Codice civile, ma ha chiesto la conversione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa (che si configura come rapporto d'opera professionale) in rapporto di pubblico impiego e il riconoscimento delle differenze retributive derivanti da tale conversione, in quanto spettanti al personale di ruolo in posizione C1. Tale prospettazione omette di considerare che il tratto fondamentale che distingue il rapporto di pubblico impiego dal rapporto nel settore privato concerne la mancata applicazione della sanzione della conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come precisa l'articolo 36, comma 5, del Dlgs 165/2001. Le norme imperative vanno individuate nella regola generale imposta dall'articolo 97 della Costituzione, che prevede che il concorso pubblico costituisce la modalità generale e ordinaria di accesso nei ruoli delle pubbliche amministrazioni, anche degli enti locali e che ammette deroghe solo in presenza di peculiari situazioni giustificatrici, individuate dal legislatore nell'esercizio di una discrezionalità non irragionevole, che trova il proprio limite specifico nella necessità di meglio garantire il buon andamento della pubblica amministrazione.

Le conclusioni
Per i giudici di legittimità deve , quindi, ritenersi che dall'eventuale qualificazione come subordinato, in sede giudiziale, di un rapporto di lavoro intercorrente con la Pa non potrebbe comunque conseguire l'acquisizione di un posto di ruolo da parte del prestatore, ma la sola possibilità di un ristoro pecuniario ex articolo 2126 del Codice civile. Difatti, la previsione contenuta nell'articolo 36 del Dlgs 165/2001, secondo cui la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, si riferisce a tutte le assunzioni avvenute al di fuori di una procedura concorsuale. La Cassazione respinge il ricorso affermando che in applicazione della regola generale della soccombenza, il ricorrente principale va condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che la stessa Corte liquida in 3mila euro per compensi professionali e in 200 euro per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

La sentenza della Corte di cassazione n. 3384/2017

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