Fisco e contabilità

Tari, 9 miliardi fuori controllo a carico di cittadini e imprese

In pochi anni «si è assistito a un susseguirsi di interventi normativi che hanno tentato di correlare il prelievo tributario da richiedere ai cittadini alla quantità di rifiuti dagli stessi prodotta, in linea con il principio di “chi inquina paga”. Eccezion fatta per pochi e singolari casi, l’obiettivo pare non essere stato ancora raggiunto».

Il verdetto della commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti
Con il sorvegliato linguaggio delle istituzioni, la commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha appena messo nero su bianco il fallimento della Tari nel suo compito fondamentale: quello di far pagare una bolletta più pesante a chi produce più rifiuti. L’Unione Europea lo chiede dal 2004, l’Italia ci prova ininterrottamente dal 2006, con una girandola tributaria che nel volgere di pochi anni ha introdotto e pensionato cinque diverse forme di tassazione. Ma il risultato non cambia. Anche nel 2018 cittadini e imprese pagheranno intorno ai 9 miliardi di Tari, ma senza un controllo effettivo che il «prezzo» sia «giusto». Nella giungla delle regole, chi ha la fortuna di abitare in territori coperti da un gestore efficiente pagherà mediamente meno, e avrà un servizio migliore; agli altri toccheranno bollette più care e una raccolta più incerta.

Le linee guida del Mef
La certificazione del fallimento arriva da un altro documento istituzionale, le Linee guida con cui tre settimane fa il ministero dell’Economia ha disciplinato la (non) applicazione dei fabbisogni standard nel calcolo della Tari.
Il punto nodale è questo, e merita di essere capito. La Tari, come le tasse/tariffe che l’hanno preceduta, funziona sulla base di un principio: deve coprire tutti i «costi del servizio», che non possono essere caricati sulla fiscalità generale (cioè, in questo caso, sui bilanci dei Comuni). Ma chi controlla che il «costo del servizio» pagato da cittadini e aziende non sia gonfiato da inefficienze e oneri impropri? Nessuno. E questo è il problema.
Per evitarlo, nella manovra 2014 (comma 653 della legge 147/2013) è stato chiesto ai Comuni di «avvalersi anche delle risultanze dei fabbisogni standard» per definire il conto della Tari, e dopo la solita infilata di proroghe la regola è entrata in vigore quest’anno. Intervengono qui le Linee guida ministeriali, che devono però affrontare una questione inestricabile. Di costi “standard” per i rifiuti, prima di tutto, ce ne sono due: quelli di «Opencivitas», il portale della Sose che sta lavorando al calcolo dei costi efficienti di tutti i servizi locali, e quelli scritti nel decreto di Palazzo Chigi del 29 dicembre 2016 con i parametri per distribuire i fondi comunali. L’ufficialità timbra solo i secondi, che fissano un costo di riferimento da 354,96 euro per tonnellata di rifiuti gestita ma poi ovviamente indicano un’infinità di variabili per tenere conto dei tassi di raccolta differenziata, della presenza di impianti, della densità di popolazione eccetera. In un quadro così intricato la via d’uscita indicata dal ministero è semplice quanto inevitabile: in attesa di tempi migliori gli standard diventano una variabile da considerare genericamente per «valutare l’andamento della gestione del servizio rifiuti», e non per calcolare la Tari. E chi ha già approvato piani finanziari e tariffe che non ne tengono conto può andare avanti senza problemi.
Il costo, insomma, è destinato a restare ancora a lungo il criterio unico della Tari, in una nebbia delle regole che coinvolge molti capitoli della tariffa rifiuti. Come sanno bene, per esempio, le famiglie che in questi anni hanno ricevuto le bollette illegittime con la quota variabile moltiplicata su garage e cantine, e ora attendono rimborsi ancora tutti da definire.

La relazione della commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti

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