Fisco e contabilità

Niente danno erariale ai revisori dei conti per le frodi del dirigente

di Vincenzo Giannotti

A fronte di consistenti e ripetuti ammanchi, dovuti alla condotta fraudolenta per diversi anni del direttore amministrativo, successivamente nominato direttore generale dell'ente, il collegio contabile di primo grado e successivamente la Corte dei conti, Prima Sezione Centrale di Appello, con la sentenza n. 44/2018, assolvono da colpa grave i revisori dei conti. Infatti, secondo i giudici, pur in presenza di un controllo caratterizzato da un insufficiente livello di approfondimento della situazione dei pagamenti all'interno dell'ente e limitato a verifiche minimali e poco più che formali, devono essere considerati elementi a discolpa quali l'ingente numero di mandati in rapporto a quelli irregolari, distribuiti su un arco temporale di circa dieci anni, la non sempre chiara formulazione delle norme di riferimento, la condotta fraudolenta del direttore e il fatto che molte operazioni fossero, spesso artatamente, collocate all'esterno della contabilità.

La vicenda
Il direttore generale di un ente pubblico non economico aveva in diversi anni sottratto ingenti risorse all'ente mediante utilizzo di mandati irregolari, prelevando denaro contante e dal conto corrente postale, tanto da essere anche condannato penalmente in via definitiva con interdizione perpetua dai pubblici uffici. In considerazione del suo comportamento doloso lo stesso veniva condannato per danno erariale, con sentenza della Corte dei conti, in via principale per un ammontare corrispondente alle somme illecitamente percepite, mentre in via sussidiaria veniva condannato il responsabile contabile. La Corte di primo grado assolveva, invece, i revisori dei conti che, pur in presenza di un controllo caratterizzato da un insufficiente livello di approfondimento della situazione dei pagamenti all'interno dell'ente e limitato a verifiche minimali e poco più che formali, si trovavano in presenza di un ingente numero di mandati in rapporto a quelli irregolari, distribuiti su un arco temporale di circa dieci anni, in una non sempre chiara formulazione delle norme di riferimento, e in presenza di una condotta fraudolenta del direttore generale.
Contro la sentenza di assoluzione del collegio contabile di prima istanza, il Procuratore ha fatto ricorso davanti alla Corte d’appello evidenziando che era stata adeguatamente valorizzata, con indubbia colpa grave, la selezione di mandati di pagamento da sottoporre a verifica, la quale non risultava effettuata secondo una tecnica di campionamento della quale venga dato atto nei medesimi verbali o altrove, tecnica che presuppone, l'individuazione preliminare di un criterio di scelta degli atti, la verifica degli atti individuati con quel criterio e la significatività numerica del campione. I revisori si sono difesi precisando come non fosse possibile rendersi conto delle distrazioni del denaro, prelevato dolosamente dal direttore generale, in quanto queste operazioni avvenivano tramite la creazione di una contabilità separata che non risultava dai dati contabili né dal bilancio dell'ente.

Le indicazioni del collegio di appello
Il collegio d’appello ha rilevato come, durante tutti gli anni osservati, dagli organi titolari di amministrazione attiva dell'ente è stato permesso al direttore amministrativo, prima che divenisse direttore generale, di gestire l'ente in questione in piena autonomia, tanto da essere condannati penalmente, per omesso esercizio di un seppur minimo controllo sull'attività di quest'ultimo, sia il direttore generale pro tempore dell'ente (che controfirmava o avrebbe dovuto controfirmare i falsi mandati in discorso) e, soprattutto, la responsabile del servizio ragioneria (che avrebbe dovuto istruire gli stessi prima di autorizzare il pagamento da parte del tesoriere). Inoltre, il direttore in quegli anni usufruiva anche della tacita acquiescenza di personale interno all'ente, come la sua segretaria la quale provvedeva a compilare, materialmente, i falsi mandati di pagamento in questione ovvero a ritirare dalle casse dell'ente somme in contanti che venivano consegnate al direttore. In presenza, pertanto, della totale inerzia dell'apparato amministrativo dell'ente, risultava difficile la scoperta degli illeciti, perpetrati dal direttore, da parte dei componenti di un organo di controllo che non erano in un rapporto costante e continuativo con la gestione dell'ente. Altra circostanza esimente è data dal numero di mandati irregolari che si manifestavano, in quanto falsificati, formalmente regolari e che avrebbero dovuto essere controllati assieme a un ulteriore gran numero di atti (si tratta di 400 mandati irregolari a fronte di circa 3000 mandati all'anno che i sindaci avrebbero dovuto controllare). In questo contesto i controlli sono stati in ogni caso effettuati a campione, senza che il Procuratore abbia indicato quali tecniche alternative i componenti dell'organo di controllo avrebbero dovuto utilizzare in modo da permettere la scoperta dei falsi mandati. Alcuni appellati hanno sottolineato il fatto che ai controlli trimestrali era presente anche il direttore ed è ragionevole supporre che quest'ultimo evitasse che fossero controllati i mandati falsi che, come detto, costituivano una minima percentuale degli atti, di volta in volta, da esaminare da parte dei componenti del collegio. Infine, è emerso che il direttore avesse creato una contabilità occulta dove non era possibile trovare dati corrispondenti in contabilità o nel bilancio dell'ente. Sulla base di queste esimenti della colpa grave, per i revisori dell'ente deve essere confermata l’assoluzione.

La sentenza della Corte dei conti, Prima sezione centrale d’appello, n. 44/2018

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