Fisco e contabilità

La seconda casa cerca sconti sulla Tari

Il principio comunitario secondo cui «chi inquina paga» fa sì che non si possa pagare una Tari “senza sconti” su una seconda casa usata solo per pochi mesi all’anno. È questo, in estrema sintesi, il pensiero della Commissione tributaria provinciale di Massa Carrara, che con una sentenza depositata il 3 novembre (la 182/1/2017) tocca un altro nervo scoperto di un tributo già al centro delle cronache – tra l’altro – per i conteggi che hanno duplicato la quota variabile sulle pertinenze delle abitazioni e per il computo dei rifiuti assimilati a quelli speciali da parte degli esercizi commerciali.
Il principio applicato dai giudici (presidente Trovato e relatore Porto) è che la tassa sui rifiuti sia illegittima se calcolata senza considerare la potenziale quantità e qualità di rifiuti producibili dall’utente. Un criterio declinato secondo buon senso, se vogliamo, che però potrebbe dare una speranza a quanti si trovano a dover versare importi elevati sulla Tari a fronte di un’abitazione usata per brevissimi periodi dell’anno.

La vicenda
Ripercorriamo la vicenda. Un contribuente riceve da un Comune – diverso da quello in cui ha propria residenza – alcuni avvisi di pagamento per il recupero della Tari su un’abitazione di sua proprietà. Da qui il ricorso davanti al giudice tributario, avviato sul presupposto che la richiesta degli uffici comunali sia errata, in quanto basata su un regolamento che non riserva alcun tipo di trattamento differenziato ai non residenti.
Il Comune si difende affermando, in prima battuta, l’inammissibilità del ricorso del contribuente, nella convinzione che per contestare il regolamento occorre rivolgersi al giudice amministrativo e non a quello tributario. Al di là dell’individuazione del giudice titolato a decidere sul caso, comunque, i difensori dell’ente locale evidenziano la correttezza dei conteggi sulla Tari.

La decisione
I giudici, innanzitutto, hanno verificato l’ammissibilità del ricorso. L’avviso di pagamento notificato dal Comune è stato assimilato al cosiddetto avviso bonario, normalmente inviato dall’agenzia delle Entrate. Si tratta di un documento che, secondo la giurisprudenza di legittimità della Cassazione, è «facoltativamente impugnabile», poiché rappresenta la manifestazione della pretesa tributaria prima che arrivi la cartella di pagamento.
Rispetto al difetto di giurisdizione (giudice amministrativo e non tributario), la Commissione tributaria ha rilevato che la valutazione della conformità dell’atto amministrativo rispetto alla norma fiscale spetta solo al giudice tributario.
Esaurite le questioni preliminari, i giudici hanno affrontato il caso nel merito. Ricordando innanzitutto che alla tassa sullo smaltimento dei rifiuti è applicabile il principio di comunitario che «chi inquina paga», previsto dall’articolo 14 della direttiva 2008/98/Ce. Va da sé che i Comuni devono considerare non solo la superficie occupata, ma anche la quantità e la qualità di rifiuti prodotti.
L’evoluzione normativa che ha interessato la Tari si è conclusa con la possibilità di prevedere con uno specifico regolamento, l’applicazione di una tariffa avente natura corrispettiva. Nel caso specifico il Comune – come la stragrande maggioranza degli enti locali – aveva adottato il cosiddetto metodo normalizzato, secondo il quale il tributo non è calcolato sulla quantità di rifiuti effettivamente prodotti dall’utente, ma in via presuntiva sulla base di coefficienti di produzione potenziale.
La pretesa era così fondata su una presunzione semplice (o come anche viene definita “semplicissima”) derivante dal rapporto dei metri quadrati dell’abitazione rispetto agli abitanti della stessa.
Il punto chiave è che, per giurisprudenza consolidata, applicabile anche per la Tari, le presunzioni semplici possono essere contrastate dal contribuente con eccezioni presuntive e anche fondate sulla comune esperienza. A maggior ragione se dal metodo adottato consegue che ad alcuni soggetti siano attribuiti costi non commisurati ai volumi dei rifiuti da essi producibili (corte di Giustizia C-248/08).
Nel caso affrontato dal giudice toscano, l’abitazione era utilizzata come seconda casa solo nei mesi estivi, circostanza provata dai consumi delle utenze. Era pertanto verosimile una ridotta produzione di rifiuti e nella motivazione degli atti impugnati non era indicato alcun elemento che dimostrasse una valutazione della fattispecie.

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