Fisco e contabilità

Le università orfane dei costi standard

A Messina, Macerata e Sassari hanno fatto saltare i tappi dello champagne. A Catanzaro, Bergamo e alla Parthenope di Napoli hanno aperto le tabelle di excel per misurare il colpo. Sono i numeri a far immaginare le reazioni opposte alla sentenza n. 104/2017 con cui dieci giorni fa la Corte costituzionale ha fatto saltare i costi standard delle università.
Una sentenza a suo modo miliare, perché rappresenta la prima bocciatura costituzionale della rivoluzione che avrebbe dovuto negli anni far tramontare la famigerata “spesa storica” dal finanziamento della pubblica amministrazione.
A leggere bene la decisione costituzionale, in realtà, la questione è più prosaica, perché i giudici non sono andati nel merito dei costi standard, ma hanno contestato l’eccesso di potere affidato ai decreti ministeriali nella definizione di parametri che avrebbero dovuto trovare spazio nella legge. Il governo ora studia come correre ai ripari, ma la sentenza rimette inevitabilmente in discussione quella che insieme ai «premi ai migliori» rappresenta la novità chiave prevista dalla legge Gelmini del 2010 nel finanziamento universitario degli ultimi anni.

I fondi fra le università statali
Per capirlo servono un paio di cenni ai meccanismi che assegnano i fondi fra le università statali. Le entrate, 6,92 miliardi nel 2016, sono divise in due grandi capitoli principali: i «premi», 1,6 miliardi l’anno scorso e in crescita, sono distribuiti in base ai risultati ottenuti da ogni università nella ricerca (misurati dall’agenzia nazionale di valutazione) e nella didattica, con parametri che si concentrano però solo sulla regolarità negli studi e la mobilità con i programmi Erasmus. La voce più ricca, 4,7 miliardi, alimenta invece la «quota base», ed è qui che entrano in gioco i costi standard: per superare le distorsioni della spesa storica, infatti, la riforma ha previsto di ancorare il finanziamento al «prezzo giusto» del servizio, misurato in base al costo di docenti ordinari, attività didattiche, tutor ed esperti linguistici, parametrato al numero degli studenti in corso.
Inaugurati nel 2014 dopo un lungo lavoro attuativo, i costi standard hanno visto crescere il loro peso, anche se in modo molto meno rapido rispetto alle intenzioni dichiarate all’inizio, e l’anno scorso hanno guidato circa 1,3 miliardi di euro, cominciando a cambiare in modo significativo la geografia dei finanziamenti.

Gli effetti
Ma chi ci guadagna e chi ci perde? Per misurare l’effetto strutturale del nuovo meccanismo basta portarlo all’estremo e applicarlo per distribuire tutti i 4,7 miliardi della quota base, confrontando poi il risultato con quello prodotto dai parametri “storici”. A Messina la perdita secca fra spesa storica e costo standard sarebbe del 39% e a Macerata del 28,8%, ma anche Cagliari, Potenza, Trieste, Lecce, Siena e Sassari vedrebbero ridursi il finanziamento base fra il 20 e il 28 per cento. All’altro capo della classifica c’è una piccola università del Sud, Catanzaro, che dall’applicazione piena dei nuovi criteri otterrebbe il 32,4% in più rispetto al finanziamento storico, seguita da Bergamo (+23,6%) e dalla Parthenope di Napoli. In termini assoluti, la tagliola più affilata arriverebbe alla Sapienza di Roma, con 35 milioni in meno, mentre Torino (+19,7 milioni) e Chieti-Pescara (+17,3) otterrebbero il beneficio maggiore.
Tutta teoria? Dopo la mazzata costituzionale, il cammino dei costi standard si fa più impervio, ma il governo punta a far ripartire subito la macchina evitando il vuoto normativo. Ma non sarà una regoletta nata sull’urgenza a chiudere un dibattito che si annuncia infinito.

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