Fisco e contabilità

L'integrità del patrimonio della società in house «prevale» sul controllo analogo

di Giovanni G.A. Dato

Non appare corretto, in sé, riversare l’onere della copertura della spesa per investimenti di pertinenza dei soggetti partecipanti sulla società partecipata (società in house affidataria di un pubblico servizio), facendo leva sulla posizione di “dominio” ed attraverso i poteri di ingerenza e di condizionamento propri del cd “controllo analogo”: questo il principio di diritto enunciato nella recente deliberazione della Corte dei conti, Sezione Regionale Controllo Veneto, 20 febbraio 2017, n. 111/2017/PRSP.
La deliberazione in commento ha, in particolare, stigmatizzato l’accollo del peso finanziario di alcune opere da realizzare in capo alla società in house in difetto di collegamento ad investimento della società medesima ed in presenza della evidente insufficienza delle risorse nella disponibilità dei soggetti pubblici partecipanti, definendo tale decisione una scelta scarsamente rispettosa dell’esigenza di conservazione dell’integrità del patrimonio della partecipata, suscettibile di produrre effetti anche sui bilanci degli enti partecipanti.

Il controllo analogo
Secondo la deliberazione in esame, il controllo analogo - la cui definizione normativa è oggi racchiusa nell’articolo 5, comma 2, Dlgs n. 50/2016 e nell’articolo 2, comma 1, lett. c), Dlgs n. 175/2016 - pur concretizzandosi nell’esercizio di un controllo di tipo amministrativo, paragonabile a quello che l’ente partecipante esercita sui propri organi, diverso da quello tipico del diritto societario, tanto da comportare l’assimilazione della società in house ad un ente pubblico, non esclude la necessità di assicurare, attraverso la governance, l’equilibrio economico-finanziario dell’organismo partecipato.

La fallibilità delle società in house
Secondo la deliberazione in commento, la giurisprudenza ordinaria (di legittimità e di merito) si è divisa sulla questione della sottoponibilità al fallimento di una società in house; in particolare, mentre alcune decisioni hanno escluso la fallibilità della società in house, in quanto mero patrimonio separato dell’ente pubblico e non distinto soggetto giuridico, altre, invece, hanno ritenuto che la scelta del legislatore di consentire il perseguimento dell’interesse pubblico attraverso società di capitali comporta - quale logico corollario - che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, in ossequio ai principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto nonché della regola della concorrenza; di recente, poi, la tesi della sottoponibilità delle società a partecipazione pubblica, ivi comprese le società in house, alla procedura fallimentare è stata ribadita alla luce dell’art. 14 del cit. D.Lgs. n. 175/2016 (cfr. Cass. civ., sez I, n. 3196/2017 e C. App. L’Aquila, n. 26/2016).
Indipendentemente dalla adesione ad uno dei contrapposti richiamati orientamenti, le decisioni dei soggetti pubblici-soci devono sempre tendere a salvaguardare l’esigenza di conservazione dell’integrità del patrimonio della partecipata; ed, infatti, facendo leva sulla prima tesi, gli enti pubblici partecipanti, a maggior ragione devono operare una gestione improntata ai principi di certezza e preesistenza della copertura finanziaria della spesa programmata, al fine di non esporre l’organismo controllato e, di conseguenza, se stessi al rischio di una compromissione degli equilibri di bilancio, presenti e futuri; aderendo alla seconda tesi, invece, la peculiarità del modello dell’in house providing non varrebbe ad escludere l’atteggiarsi della società, nei rapporti con i terzi, come un qualunque soggetto imprenditoriale privato, in quanto tale a rischio di insolvenza, con il conseguente obbligo per i soci di operare scelte compatibili con il principio di economicità, inteso quale autosufficienza economica ed equilibrio economico-finanziario.

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