Appalti

Codice appalti, uno strumento di lotta alla corruzione e agli sprechi «fuori bersaglio»

di Andrea Napoleone

Il mercato degli appalti pubblici, secondo le ultime stime della Commissione europea, vale in media in Europa circa 1.900 miliardi di euro/anno e solo in Italia, nel 2014, l’incidenza della spesa pubblica del comparto sul Pil è stata del 10,7 %, pari a circa 172,6 mld/anno.
Sarebbero sufficienti questi dati per far comprendere quanto il sistema degli appalti pubblici sia strategico per l’intera economia del nostro Paese. Eppure, curiosamente, nel dibattito politico di questi ultimi anni, il ruolo degli appalti pubblici non solo non è stato mai adeguatamente valorizzato, ma anzi relegato più che altro nell’ambito di una lotta alla corruzione generalista e generalizzata e, dunque, demagogica e per ciò stesso inefficace.

Le criticità del public procurement
Ed è proprio questo uno dei principali problemi che non consente al sistema del public procurement di decollare in Italia quanto negli altri Paesi europei, collocandosi il nostro Paese soltanto al 24° posto (insieme alla Grecia) per spesa pubblica in materia di appalti.
È, infatti, davvero l’attuale modalità di lotta alla corruzione il reale problema che attanaglia il complesso rapporto fra imprese, pubblica amministrazione e cittadini? O piuttosto la corruzione viene spesso brandita più che altro come «specchietto per le allodole» al fine di sviare l’attenzione sui reali vulnus tutt’ora esistenti nelle stazioni appaltanti italiane?
La risposta a tali interrogativi non può che essere affermativa: la corruzione pur grave e radicata nel nostro Paese, ha in realtà un’incidenza relativa sulle grandi e piccole criticità del public procurment.
Alcuni dati oggettivi raccolti da una recentissima ricerca dell’Università Tor Vergata di Roma svolta in collaborazione con la Columbia University e la London school of Economic, nonché la stessa esperienza quotidiana delle varie stazioni appaltanti, mostra  infatti come in realtà gli sprechi nel settore degli appalti pari a circa 30 miliardi di euro all’anno (circa il 2% del Pil), siano causati solo per il 13% dalla corruzione, mentre per l’87% da incapacità e incompetenza degli uffici tecnici e degli amministratori.
Il dato è impressionante, non soltanto per la mole di denaro pubblico letteralmente «buttato», ma soprattutto perché mette in luce l’inconsistenza e fallacia delle attuali politiche legislative in materia di appalti pubblici, volte per lo più a contrastare repressivamente i fenomeni corruttivi in sede di gara, che non a combattere inefficienze e imperizie dell’Amministrazione in sede di esecuzione dei lavori, cioè in sede di realizzazione dell’opera.

Una riforma «fuori bersaglio»
La lotta agli sprechi e alla corruzione non può essere demagogica, altrimenti rischia, come di fatto è avvenuto, di concretizzarsi per lo più in azioni legislative «fuori bersaglio» e foriere spesso solo di un aumento eccessivo della burocrazia, di un’esasperata procedimentalizzazione dei processi, con conseguente aggravio per le imprese e le Pubbliche amministrazioni che si trovano sempre più a dover lavorare in un proliferare di norme farraginose e controlli esterni numerosi, spesso fini a se stessi e privi di benefici pratici. E, infatti, le varianti in corso d’opera non accennano a diminuire, le «riserve» iscritte dagli appaltatori sono sempre le stesse con richieste di risarcimento in corso lavori esorbitanti, il contenzioso resta elevatissimo e spesso azionato «a prescindere», addirittura prima che l’affidatario metta piede in cantiere.
Una riforma, insomma, che presenta non solo molteplici profili di inattuabilità, ma che si prefigge anche obiettivi che non è poi in grado di perseguire in concreto, volendo contrastare gli sprechi con una lotta generalizzata alla corruzione, quando in realtà – come dimostrato – la principale causa degli stessi è anzitutto la mancanza di formazione del personale tecnico delle stazioni appaltanti.
Ecco perché, parallelamente all’effettiva entrata in vigore del Codice si sarebbe dovuto dotare subito la Pubblica amministrazione, sul modello tedesco, di strumenti di prevenzione efficaci, dotando il personale tecnico delle stazioni appaltanti anzitutto di un’adeguata formazione attraverso l’istituzione di una Scuola ad hoc (attualmente inesistente), propedeutica all’inserimento nei ranghi amministrativi di funzionari altamente specializzati. Oggi, con le specificità tecniche contemporanee, non è possibile che il personale delle stazioni appaltanti apprenda di fatto la propria professione solo «per affiancamento», perpetrando dunque di fatto gli errori del passato.

Conclusioni
Occorre, dunque, mettere mano con urgenza a questa riforma «elettorale» del sistema appalti, andando ad incidere oramai sull’unico strumento attuativo che potrebbe ancora essere in grado di rimodulare e correggere gli errori presenti in sede di normazione primaria, ossia quello di un unico regolamento attuativo del nuovo Codice. E questo sarà compito esclusivo del Parlamento e del nuovo Governo, che dovranno con fermezza e orgoglio, da un lato, affrancarsi da logiche demagogiche e generaliste, e dall’altro, riappropriarsi della propria potestà di legiferare senza sub-appaltarne la competenza a qualche, pur autorevole, Autorità amministrativa.

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