Appalti

Troppi 13 anni per annullare d'ufficio un permesso di costruire

di Massimiliano Atelli

Il Consiglio di Stato si è pronunciato su un provvedimento di autotutela della Pa adottato a distanza di oltre tredici anni dal rilascio dell'atto annullato per valutare se ledesse o meno l'affidamento dei titolari del titolo edilizio, circa la stabilità e la definitività dei suoi effetti autorizzatori. Si è espresso, dunque, sulla valenza di principio della novella del 2015 alla legge n. 241/1990, nella parte in cui ha quantificato in diciotto mesi la durata massima del termine entro cui possono essere annullati gli atti autorizzatori (Consiglio di Stato VI sezione sentenza 27 gennaio 2017 n. 341).

La valenza di principio nei casi in cui non ha applicazione concreta
Nel precisare che detta novella non può applicarsi ratione temporis ai provvedimenti adottati prima dell'entrata in vigore della predetta modifica normativa, ha chiarito che quest'ultima non può non valere come prezioso (e ineludibile) indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell'osservanza della regola di condotta in questione.
Con la precisazione esatta del termine massimo di consumazione del potere di autotutela decisoria, il legislatore ha, infatti, inteso accordare una tutela più pregnante all'interesse dei destinatari di atti ampliativi alla stabilità e alla certezza delle situazioni giuridiche da essi prodotte, costruendo un regime che garantisca la loro intangibilità una volta decorso inutilmente il periodo di operatività del potere di annullamento d'ufficio dei relativi titoli “ampliativi” (che diventano, così, non più rimuovibili dall'amministrazione, anche quando illegittimamente adottati). Ne consegue, ad avviso della VI sezione, che pur non potendosi applicare a provvedimenti di autotutela perfezionatisi prima dell'entrata in vigore dell'intervento normativo che l'ha introdotta, non può trascurarsi la valenza della presupposta scelta legislativa, in occasione dell'esegesi e dell'applicazione della norma, nella sua formulazione previgente (Consiglio di Stato, sezione VI, 10 dicembre 2015 n.5625).
Detto altrimenti, per dare contenuto alla nozione indeterminata di termine ragionevole, la sua corretta interpretazione (ed applicazione) da parte dell'amministrazione dev'essere compiuta con particolare rigore quando il potere di autotutela viene esercitato su atti attribuitivi di utilità giuridiche od economiche, con la conseguenza che, pur quando non possa ritenersi consumato il potere di annullamento d'ufficio decorso il termine massimo stabilito dal legislatore del 2015, deve giudicarsi, comunque, irragionevole un termine notevolmente superiore (nel caso in esame, di oltre sette volte) a quest'ultimo.
Più nello specifico, secondo i giudici di Palazzo Spada, una simile durata dell'operatività del permesso di costruire rimosso con l'atto di autotutela contestato imponeva, a fronte della consistenza dell'affidamento ingenerato nei destinatari circa il consolidamento della sua efficacia, una motivazione particolarmente convincente, per giustificare la misura di autotutela, circa l'apprezzamento degli interessi dei destinatari dell'atto (come espressamente prescritto dall'articolo 21 nonies della legge citata), in relazione alla pregnanza e alla preminenza dell'interesse pubblico alla eliminazione d'ufficio del titolo edilizio illegittimo. Inoltre, fa notare la VI sezione, la consistenza di tale onere motivazione deve intendersi aggravata dall'efficacia istantanea dell'atto, e, cioè, della sua idoneità a produrre effetti autorizzatori destinati ad esaurirsi con l'adozione dell'atto permissivo, assumendo, in tale fattispecie, nel giudizio comparativo degli interessi confliggenti, maggiore rilevanza quello dei privati destinatari dell'atto ampliativo e minore pregnanza quello pubblico all'elisione di effetti già prodotti in via definitiva e non suscettibili di aggravamento (Consiglio di Stato, sezione IV, 29 febbraio 2016, n. 816).

Argomenti, spunti e considerazioni
La decisione del Consiglio di Stato persuade.
Perché torna a ricordare che il rapporto fra Pa e cittadini deve svolgersi all'insegna della lealtà, oltre che dell'efficienza e ogni pazienza ha il suo limite, per fare il verso a una celebre battuta. Oggi, il limite legale di quella pazienza (e quindi il termine ultimo concesso alla Pa per emendare un proprio errore) è fissato in 18 mesi. Una quantificazione inapplicabile a situazioni verificatesi prima dell'entrata in vigore della novella del 2015 alla legge n. 241 e discussa e discutibile anche nel merito, se si vuole.
Ma 13 anni sono troppi, comunque la si pensi. Su 13 anni di incertezza non si può costruire nulla, mentre si può di certo frantumare quel che resta del rapporto di fiducia - sfilacciatosi nel tempo, e purtuttavia ancor oggi essenziale - fra Pa e cittadini.
Da condividere perciò l'idea, fatta propria dalla VI sezione, che in parte qua la novella del 2015 ha valenza di principio anche quando non può trovare applicazione concreta in termini di dettaglio. E' un benchmark. Per tutti.
Persuade, altresì, l'argomento che la motivazione del provvedimento di annullamento d'ufficio è a intensità varabile a seconda dei casi. Dove le variabili incidenti non si esauriscono nel solo fattore della durata (dell'efficacia dell'atto rimosso), ma includono il tipo di efficacia (istantanea o meno) dell'atto, e, cioè, la sua idoneità a produrre effetti autorizzatori destinati ad esaurirsi con l'adozione dell'atto permissivo, giacché in tali ultime fattispecie, nel giudizio comparativo degli interessi confliggenti, tende ad assumere maggiore rilevanza quello dei privati destinatari dell'atto ampliativo e minore pregnanza quello pubblico all'elisione di effetti già prodotti in via definitiva e non suscettibili di aggravamento (Consiglio di Stato, sezione IV, 29 febbraio 2016 n. 816).

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