Personale

Gli incarichi esterni non autorizzati legittimano il licenziamento

di Vincenzo Giannotti

Il dipendente pubblico che svolge incarichi extra istituzionali non previamente autorizzati dalla propria amministrazione, subisce le sanzioni previste dall'articolo 53 del Dlgs 165/2001, ossia responsabilità disciplinare e obbligo del riversamento dei compensi indebitamente percepiti. In mancanza del versamento spontaneo da parte del dipendente, si ha responsabilità erariale la cui competenza è intestata alla Corte dei conti. In merito alla sanzione disciplinare, la Corte di cassazione, con sentenza n. 28975/2017, ha giudicato proporzionale la sanzione espulsiva per giusta causa nei confronti di un dipendente pubblico che aveva svolto diversi incarichi esterni non previamente autorizzati.

Il caso
Un dipendente pubblico veniva licenziato per giusta causa in seguito a una molteplicità di attività remunerative esterne, in assenza della previa autorizzazione della propria amministrazione di appartenenza. A fronte del ricorso presentato dal lavoratore contro l'illegittimità del licenziamento, il Tribunale di prime cure e, successivamente, la Corte d’appello respingevano la domanda del ricorrente, giudicando la sanzione espulsiva proporzionale ai fatti contestati. Il lavoratore è ricorso alla Corte di cassazione precisando come, gli incarichi svolti prezzo terzi richiedevano poco impegno in termini di ore, omettendo, tuttavia, di allegare la lettera di incarico e il curriculum indirizzato alla datrice di lavoro in considerazione dell'espletamento degli incarichi ancora in corso. Non risultava, inoltre, ai fini della valutazione della reale consistenza, per ciascun incarico la durata e il numero di ore dedicate, essendosi il dipendente limitato ad affermare che essi erano stati svolti nel tempo libero e nel rispetto dei tempi di riposo e non avevano pregiudicato l'attività lavorativa svolta alle dipendenze dell'ente.

Le indicazioni della Suprema Corte
I giudici di Piazza Cavour evidenziano, in via preliminare, che le disposizioni legislative prevedono la responsabilità disciplinare da parte del dipendente che svolge incarichi extra istituzionali in assenza della preventiva autorizzazione della propria amministrazione. Infatti, in presenza della violazione dell’articolo 53, comma 7, del Testo unico del pubblico impiego, grava sulla Pa l'onere della prova della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, cioè l'onere di provare l'avvenuto espletamento di incarichi non autorizzati nella loro oggettività. Grava, invece, sul pubblico dipendente, che, ai fini del giudizio di proporzionalità deduca la scarsa rilevanza dell'inadempimento, l'onere di allegare e dimostrare, secondo la regola generale in tema di onere probatorio, la durata, la consistenza in termini quantitativi e qualitativi dell'impegno richiesto dall'espletamento degli incarichi non autorizzati. Nel caso di specie, l'amministrazione ha provato e documentato gli incarichi non autorizzati svolti dal dipendente, mentre il dipendente non ha fornito alcuna prova circa la scarsa consistenza degli incarichi espletati.
A fronte di queste considerazioni, la Suprema Corte ha confermato la sentenza dei giudici d’appello che hanno giudicato proporzionale il licenziamento per giusta causa.

Il riversamento dei compensi illeciti
Oltre la sanzione disciplinare espulsiva, il dipendente è, altresì, obbligato a riversare, i compensi ricevuti illecitamente in assenza di autorizzazione, alla propria amministrazione per essere riversati ai fondi di produttività. In caso di mancato versamento obbligatorio, diviene onere della Pa informare la Procura erariale al fine del recupero delle somme illecitamente ricevute dal dipendente, a fronte della chiara disposizione normativa secondo cui «L'omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti» (articolo 53, comma 7-bis, del Dlgs 165/2001). Questa responsabilità esisteva anche prima della legge 190/2012 (normativa anticorruzione) che ha introdotto la specifica disposizione di legge. Secondo, infatti, la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per l'Emilia Romagna (sentenza 26 luglio 2017 n. 170) detta disposizione non introduce alcuna fattispecie nuova e tipizzata di responsabilità amministrativa, ma si limita a rafforzare quanto già in precedenza affermato da un solido orientamento giurisprudenziale in materia (per fatti anteriori alla legge n. 190/2012 ex multis, Corte conti, Sezione Lombardia, n. 216/2014; Sezione Puglia n. 230/2015). Lo stesso giudice di legittimità, ha avuto modo di ribadire la competenza del giudice contabile per l'ipotesi di responsabilità amministrativa di un dipendente pubblico per violazione non solo dei doveri tipici delle funzioni svolte, ma anche delle funzioni strumentali e, necessariamente, anche nel caso di omessa richiesta di autorizzazione allo svolgimento d'incarichi extra lavorativi (Cassazione Sezioni unite, n. 22688/2011). La normativa risponde, pertanto, all'esigenza di assicurare l'interesse dell'erario a una piena esclusiva prestazione del proprio dipendente a garanzia del principio del buon andamento della Pa. In questi casi, l'importo del compenso indebitamente ottenuto quantifica, ragionevolmente, la minore efficienza ed efficacia sottratta all'Amministrazione di appartenenza da parte del dipendente non autorizzato allo svolgimento della prestazione, tanto che, secondo il vigente regime, detto importo viene reinserito tra le disponibilità finanziarie da destinare al recupero della produttività della Pa allo scopo, così, di neutralizzare il vulnus arrecato dalla dispersione verso l'esterno di prestazioni professionali esclusivamente riservate all'Amministrazione di appartenenza.

La sentenza della Corte di cassazione n. 28975/2017

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