Amministratori

Viola la privacy l’ufficiale giudiziario che lascia i nomi sull’atto di sequestro affisso al pubblico

di Patrizia Maciocchi

Viola la privacy l'ufficiale giudiziario che affigge sul cancello sottoposto a sequestro per abuso edilizio, la copia integrale dell'ordinanza che impone il vincolo e che contiene i dati che identificano l'amministratore delegato della società.
Per il vertice della compagine non c'è però alcun diritto al risarcimento del danno alla reputazione, senza la prova che la condotta lesiva sia stata effettivamente percepita da terzi . La Corte di cassazione, con la sentenza n. 14680, depositata ieri, respinge sia il ricorso dell'Ad della società immobiliare, che reclamava il diritto al ristoro per i danni provocati alla sua immagine, sia il controricorso dell'ufficiale giudiziario che riteneva di non aver violato la normativa sulla privacy, perché si era mosso nell'ambito di un procedimento penale e negava di poter essere considerato titolare del trattamento dei dati personali.

La violazione contestata era stata messa in atto nell'ambito di un sequestro per abuso edilizio. La società della quale il ricorrente era legale rappresentante a amministratore delegato, aveva, infatti, dato seguito a dei lavori su un complesso immobiliare a Roma, malgrado il no opposto alle opere dal Servizio del Parco Regionale dell'Appia Antica. In assenza dell'autorizzazione era scattato il sequestro preventivo degli immobili. La copia integrale dell'atto, completa dei dati del ricorrente, era stata messa in bella mostra dall'ufficiale giudiziario nel cancello d'ingresso della struttura. E tolta solo dopo la diffida dell'avvocato del manager. Il dipendente pubblico aveva affermato la sua irresponsabilità e ammesso al massimo una colpa lieve, che poteva rientrare nella giurisdizione della Corte dei conti.

Per la Cassazione però il Tribunale, pur negando il diritto al risarcimento, aveva censurato il comportamento del pubblico ufficiale, che, aveva senza alcuna necessità diffuso i dati contenuti nell'atto di un procedimento penale ma all'infuori di questo. Per i giudici, il pubblico impiegato non era responsabile dei dati personali ma aveva agito indebitamente come se lo fosse. La delega che gli era stata data dall'Autorità giudiziaria poteva, infatti, essere soddisfatta, esponendo il provvedimento ma oscurando le “informazioni” personali. Il tutto non basta però per ottenere i 100 mila euro chiesti dal legale rappresentante della società, perché manca la prova della lesione: non c'è alcuna dimostrazione che qualcuno abbia letto.

La sentenza della Corte di cassazione n. 14680/2018

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