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È reato portare il cellulare nella cabina elettorale

Rischia una sanzione di 15mila euro chi entra nella cabina elettorale con il cellulare e fotografa la scheda. Ed è inutile minimizzare l’accaduto chiedendo la non punibilità per particolare tenuità del fatto. La Cassazione, con la sentenza n. 9400, depositata ieri, conferma la decisione della Corte d’Appello che si era limitata a trasformare la pena detentiva in pecuniaria per la violazione della legge sulla segretezza del voto (articolo 1 legge 96/2008). Il difensore del “fotografo” negava la consumazione del reato . A suo avviso, infatti, il presidente del seggio avrebbe dovuto prevenire l’azione con l’invito a non portare in cabina mezzi di riproduzione visiva, cosa che non era avvenuta. In subordine l’imputato chiedeva la non punibilità per particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis). I giudici della quinta sezione penale respingono però il ricorso.

La Suprema corte conferma che il presidente di seggio deve invitare l’elettore a lasciare i cellulari in custodia insieme al documento, entrambi da restituire all’uscita. Tuttavia non sono previste conseguenze penali per il presidente che viene meno al suo dovere, mentre la stessa cosa non si può dire per l’elettore che porta in cabina il cellulare o altri dispositivi con i quali si può fotografare. Un divieto (comma 1 della legge) la cui sola violazione fa scattare il reato. E l’imputato era andato anche oltre «attuando il pericolo che il precetto penale intende scongiurare, fotografando la sua espressione di voto». Azione che non può essere considerata di particolare tenuità. Non passa neppure la richiesta di applicazione del regime di favore sulle sanzioni introdotto con il comma 1 bis nell’articolo 459 , del nuovo codice di rito penale (legge 103/2017).

La norma , in caso di procedimento per decreto penale, consente al giudice di determinare la sanzione sostitutiva non più in termini generali (250 euro al giorno) ma in misura variabile: da un minimo di 75 euro al triplo della cifra, secondo le condizioni economiche e familiari dell’imputato. Un trattamento che, ad avviso del ricorrente, andava applicato in tutti i casi di “trasformazione” della pena detentiva in pecuniaria e dunque anche nel rito abbreviato. La Cassazione precisa però che l’intenzione del legislatore, nell’aggiungere il comma 1-bis all’articolo 459, era di favorire una definizione contratta del processo penale, con un evidente scopo deflattivo. Nel solo rito alternativo del decreto penale, il più semplificato tra quelli previsti dall’ordinamento, ha dunque consentito un’ulteriore contrazione della sanzione, che può essere già diminuita in misura maggiore rispetto agli riti semplificati: della metà anziché di un terzo come nel caso di patteggiamento o di giudizio abbreviato. La Suprema corte sottolinea che il diverso trattamento è giustificato «dal risparmio di attività processuali e che, per tale ragione, non può essere considerata, come vorrebbe il ricorrente, una norma di applicazione generale, se non ponendo in dubbio l’intero impianto premiale del codice di rito».

La sentenza della Corte di cassazione n. 9400/2018

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