Amministratori

Processo senza spese se il ministero perde

Il ministero della Giustizia, che fa ricorso contro il provvedimento del Tribunale di sorveglianza contro la condanna al risarcimento del danno per la detenzione degradante, non può essere condannato a pagare le spese processuali e eventualmente a versare una somma alla cassa delle ammende in caso di rigetto o d’inammissibilità dell’opposizione.
Le Sezioni unite della Corte di cassazione, con un’informazione provvisoria del 21 dicembre scorso, forniscono la risposta, sollecitata nell’ordinanza di remissione 37793/2017, nella quale i giudici avevano esaminato il ricorso del ministero contro l’istanza di “indennizzo” presentata in base all’articolo 35-ter dell’ordinamento penitenziario. Il collegio aveva ritenuto di rimettere la questione al Supremo collegio in virtù della disparità di vedute, esistente nelle sezioni semplici, sulla qualità rivestita dal ministero e dal direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel processo.

La questione centrale
Le perplessità riguardavano, in particolare, la possibilità di applicare anche al dicastero di Via Arenula l’articolo 616 del Codice di procedura penale che prevede la condanna alle spese del procedimento o al pagamento di una somma che oscilla da 258 a 2065 per la parte privata che lo ha proposto. Secondo un filone della giurisprudenza (sentenza 53011/2014 e altre) anche nel procedimento che scaturisce dal reclamo del detenuto, «la Pubblica amministrazione assume il ruolo di contraddittore necessario e sostanziale del detenuto o dell’internato reclamanti in relazione, al dedotto «grave pregiudizio all’esercizio dei diritti”...». Circostanza che rende il ministero equiparabile alla parte privata, un concetto nel quale vanno ricomprese tutte le parti processuali diverse dal Pubblico ministero, unico ad avere il “diritto” di essere considerato parte pubblica.
Altrettanto numerose sono anche le sentenze che si sono espresse per l’esclusione della condanna alle spese del ministero della Giustizia nell’impossibilità di assimilarlo ad un «privato», tra queste, l’ultima n.30359 del 2017 che richiama a supporto della sua tesi addirittura un verdetto del 1988, a dimostrazione della solidità di un orientamento al quale le Sezioni unite si sono uniformate con la sentenza del 21 dicembre.
L’articolo 35-ter introdotto nell’ordinamento penitenziario sul ricorso contro la detenzione inumana e degradante è un rimedio previsto dal governo, dopo la sentenza della Corte Cedu sul caso Torreggiani, con la quale Strasburgo, in considerazione del sovraffollamento delle carceri, ha chiesto all’Italia di adottare misure attivabili dai detenuti per mettere fine alle condizioni di contrasto con l’articolo 3 della Cedu che vieta la tortura.

L’ordinanza di remissione alle Sezioni Riunite della Cassazione

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