Amministratori

Condanna per corruzione del dipendente, il danno all'immagine dell'ente va provato in concreto

di Giuseppe Nucci

Il danno all’immagine non può discendere automaticamente da una condanna penale per corruzione ma, al contrario, vanno adeguatamente provati ed individuati, in concreto, gli elementi in base ai quali sussisterebbe la lesione dell’immagine dell'ente.
È questo il principio affermato dalla sentenza n. 428/2017 della Corte dei Conti, prima sezione centrale di appello.

Le condanne per corruzione e concussione
Tre membri del consiglio di amministrazione e il capo dell'ufficio tecnico di un ente pubblico venivano condannati per corruzione e concussione per fatti connessi al pagamento di tangenti.
A seguito di ciò, la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti ne riconosceva anche la responsabilità amministrativo-contabile addebitandogli un danno patrimoniale diretto e un danno all’immagine dell’amministrazione.
I prevenuti proponevano quindi appello eccependo il difetto di giurisdizione e la prescrizione e, nel merito, l’inidoneità probatoria dei fatti oggetto di condanna penale con il rito del patteggiamento nonché l’insussistenza del danno all’immagine.

La sentenza
Il Giudice di appello, preliminarmente, dichiarava l’inammissibilità di tutti i motivi riguardanti questioni pregiudiziali e preliminari (giurisdizione e prescrizione), sulle quali era intervenuto il precedente giudicato.
Circa la valenza probatoria della sentenza penale di condanna con il rito del patteggiamento, veniva sottolineato che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza 17289/2006, avevano testualmente affermato che “…il Giudice, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua responsabilità non sussistente e il Giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione”.
Nel caso in esame le assunzioni acquisite nel procedimento penale sono state ritenute integralmente recepibili nel procedimento contabile poiché dagli atti processuali risulta che gli appellanti hanno ammesso le loro responsabilità rendendo dichiarazioni ampiamente confessorie negli interrogatori che hanno poi trovato riscontri nelle risultanze di indagini documentali e bancarie e nelle dichiarazioni dei vari imprenditori coinvolti.
Di conseguenza il Collegio ha ritenuto provato il danno patrimoniale cd “da tangente” arrecato all'ente pubblico ricordando che, per giurisprudenza consolidata, in tale danno assume rilevanza il maggior costo dell’opera commissionata o della prestazione richiesta - in ragione del maggior onere sopportato dall’imprenditore per somme corrisposte al funzionario infedele per ottenere favoritismi – che viene poi traslata sul prezzo del bene o servizio, in termini di maggior costo ovvero di minori controlli, con possibili riflessi sulla qualità del servizio e conseguente aggravio di costi sull’Amministrazione.
Relativamente al danno all'immagine, invece, il Giudice di appello non ha confermato la sentenza di primo grado in quanto non ha condiviso le considerazioni della Sezione territoriale secondo la quale dal comportamento illecito dei dipendenti discende, di per sé, il danno all'immagine per l'ente di appartenenza.
Tale affermazione, infatti, secondo la Sezione centrale contrasta con l'articolo 2697 Cc perché l'onere della prova della relativa posta di danno non è stato assolto dalla Procura erariale, né può essere accettato l'assioma conseguente, ossia la quantificazione equitativa di un danno che, però, non è stato provato.
Tra l’altro, veniva rilevato che non sono stati nemmeno individuati, in concreto, gli elementi in base ai quali ritenere la sussistenza del disdoro dell'ente, a seguito dei comportamenti degli appellanti.
In definitiva, nonostante l'indubbia riprovevolezza delle condotte dei convenuti, il Giudice di appello confermava la decisione limitatamente al danno da tangente e li assolveva per il danno all'immagine.

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