Amministratori

Le misure tampone non salvano i Comuni dal dissesto

di Ettore Jorio

Prima o poi i conti (quelli veri) sarebbero tornati. È quanto sta emergendo dalle crisi finanziarie vissute dal sistema autonomistico territoriale, comprese le grandi città come mostra l’inchiesta pubblicata sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 6 novembre. Principalmente, dai Comuni, che si sono resi loro stessi protagonisti dei propri disastri, complice un legislatore non adeguato a migliorare questo stato di cose attraverso l'introduzione di regole severe, divenuto corresponsabile del problema con l'adozione di misure a pioggia e scoordinate tra loro funzionali ad assicurare il più immediato consenso a prescindere. Un evento reso possibile dalle campagne di promozione politica degli ultimi Governi volte, da una parte, a sottrarre agli enti locali il loro più consistente gettito fiscale e, dall'altra, a rinviare le verità contabili, attraverso l'adozione di interventi dall'effetto meramente estetico, e con esse le soluzioni reali.

Misure tampone
Tutto questo si è concretizzato a seguito di tre iniziative, intese a differire le soluzioni che l'entità dei problemi avrebbe meritato.
L’abolizione dell'imposizione locale sul «mattone» di prima abitazione (Ici-Imu) sulla quale erano fondate le reali sostenibilità dei bilanci comunali. Un taglio «popolare» che ha inciso negativamente, e spesso irrimediabilmente, sulle disponibilità necessarie per l'esercizio delle politiche locali.
Un predissesto introdotto dall'Esecutivo Monti (2013), per evitare le dichiarazioni di dissesto in pectore delle grandi Città - a cominciare da Napoli dal bilancio più inguaiato - piuttosto che per costituire una soluzione. Uno strumento utilizzato all'ingrosso da centinaia di Comuni, soprattutto del centro sud, dei quali gran parte destinatari - all'epoca - del dissesto sanzionatorio di cui al Dlgs 149/2011, articolo 6, comma 2, con conseguente scioglimento dei rispettivi consigli comunali. Insomma, più che una soluzione esso è il risultato un rimedio similia similibus, con finalità semplicemente anestetiche dei dolori gestori di enti locali privi di liquidità. Una misura concessa agi enti locali per tentare di ripianare in dieci anni i disavanzi di amministrazione (per alcune grandi città) miliardari frutto di incapacità gestionale e di politiche clientelari.
I tre provvedimenti governativi (decreti legge 35/2013, 66/2014 e 78/2015), nati per rianimare le finanze attraverso un sensibile prolungamento degli effetti dei pagamenti dei debiti accumulati verso fornitori dagli enti territoriali, hanno reso possibile a Comuni & co. di ammortizzare in trent'anni tutto l'impagato per anni, accollando al bilancio della Cassa Depositi e Prestiti il relativo onere immediato.

Restano i problemi di fondo
A ben vedere, un filotto di strumenti che anziché risolvere il problema dalle sue radici vi hanno girato intorno. È stato il classico esempio di quel cane che si morde la coda.
In presenza di bilanci sensibilmente truccati nella rappresentazione dei loro residui e in assenza di una riscossione dei tributi e delle tariffe degna di essere considerata tale, specie se ritenuta in verosimile peggioramento, sarebbero infatti servite misure decisamente strutturali. Insomma, una grande «riforma» in favore dei più deboli, assistita da una consistente perequazione infrastrutturale (prevista dal Dm 26 novembre 2010 mai attuato!) e da una perequazione finanziaria destinata a ripianare le pretese creditorie pregresse, che - così come invece previsto - comportano pesanti prelievi trentennali gravanti sui bilanci ordinari, già insufficienti per loro conto. In quanto tali inadeguati per produrre ogni genere di indispensabile ripresa.
Nei casi di assoluta gravità, ricorrere ai rimedi omeopatici costituisce non solo una inutile perdita di tempo ma anche la sadica occasione di aggravare le patologie riscontrate che solo i più innovativi antibiotici possono curare.

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