Amministratori

Il magistrato non può offendere il sindaco

La commissione disciplinare del Csm non può evitare la “punizione” al magistrato che dal suo profilo Facebook offende il sindaco di Roma, considerando il fatto di fatto di scarsa rilevanza, perché il primo cittadino non aveva percepito lo scritto come offensivo. Ai fini disciplinari pesa, infatti, la lesione che deriva all’immagine del magistrato da un fatto-reato. La Cassazione (sentenza 18987) accoglie il ricorso Pm contro la decisione del Csm di escludere l’illecito a carico del magistrato, per scarsa rilevanza, come previsto dall’articolo 3 bis del Dlgs 109/2006 che regola la responsabilità disciplinare dei magistrati.

Il fatto
I “probi viri” avevano aperto il procedimento dopo che l’incolpata aveva scritto sul social network la frase “Non ho mai visto un sindaco plaudire bea(o)tamente per essere stato messo sotto tutela ...». Il post era stato poi ripreso dal quotidiano la Repubblica.
La Commissione disciplinare , ammettendo sia la consumazione del reato di diffamazione, sia il pregiudizio all’immagine del magistrato per la risonanza dell’episodio aveva ritenuto, con un giudizio ex post, che nel suo complesso il fatto era di scarsa rilevanza. Sulla decisione aveva inciso soprattutto, una dichiarazione del sindaco che aveva “minimizzato” e il buon ”curriculum” professionale dell’incolpata.
Non è d’accordo il Pm, secondo il quale non si poteva applicare l’articolo 3-bis, perché la contestazione riguardava un illecito disciplinare in conseguenza di un reato. Ipotesi che rientra nel raggio d’azione dell’ articolo 4 del Dlgs 109/2006, che impone di “punire” il magistrato, anche se il reato è estinto o l’azione penale non può essere iniziata o proseguita, perché con il reato viene sempre lesa l’immagine delle toghe.

La decisione
La Cassazione accoglie in parte il ricorso dell’accusa ed annulla la sentenza impugnata rinviando al Csm per un nuovo giudizio.
Non è vero - spiega la Cassazione - che, in caso di un fatto reato non è mai applicabile l’articolo 3-bis. La tesi si rifà a u un orientamento che si è formato prima dell’entrata in vigore dell’articolo 131-bis del Codice penale, sulla non punibilità per particolare tenuità del fatto. Una norma che ha certamente effetto sull’interpretazione dell’ articolo 3-bis e sull’articolo 4 del Dlgs 109. Spetterà al giudice disciplinare valutare se, alla particolare tenuità del fatto come disegnata dal Codice penale, corrisponda una particolare tenuità anche a livello disciplinare. Nel caso esaminato però, la Cassazione ritiene che abbia sbagliato il Csm a “liquidare”, in presenza di un reato, come scarsamente rilevante l’illecito disciplinare. Quello che conta è l’immagine del magistrato, lesa a prescindere dal fatto che le parole diffamatorie non sono state percepite in tal senso dal destinatario.

La sentenza della Corte di cassazione n. 18987/2017

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