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Prevenzione arma potente da usare con cautela

Le misure di prevenzione patrimoniale sono un’arma potente, rivelatasi estremamente efficace per contrastare determinate forme di criminalità, come le associazioni di tipo mafioso, colpite dalla confisca proprio nel loro core business: l’accumulo di capitali illeciti. Quest’arma, però, deve la sua potenza, almeno in parte, al fatto che può essere usata a prescindere dall’accertamento del reato. Senza troppi giri di parole, occorre infatti constatare che le misure di prevenzione possono comportare conseguenze assai afflittive (come la perdita totale e definitiva del patrimonio) pur offrendo solo un pacchetto low cost di garanzie sostanziali e processuali. Si pensi solo al fatto che per la loro applicazione bastano indizi, senza la necessità di prove, indizi che per giunta possono essere desunti anche da fonti che non sarebbero ammesse in un processo penale. Al di là, poi, della diatriba tecnica sull’inversione dell’onere della prova, sta di fatto che il proposto, una volta colpito dal sequestro, per scongiurare la confisca ha davanti a sé una strada tutta in salita (deve, in altre parole, difendersi attaccando, mentre l’imputato in un processo potrebbe in teoria limitarsi a parare i colpi dell’avversario). Infine, le misure di prevenzione non conoscono la prescrizione e contro di esse vi è una limitata possibilità di ricorso in cassazione.
Ebbene, proprio perché così potente, quest’arma dovrebbe essere usata con estrema cautela, e soprattutto mirando bene prima di sparare. Così è avvenuto, finora, nel loro impiego contro la mafia, laddove un consolidato patrimonio di conoscenze criminologiche, da un lato, e una insidiosa perniciosità del fenomeno associativo di tipo mafioso, dall’altro, convalida e giustifica alcune “scorciatoie” del sistema preventivo.

La riforma in Parlamento
Rischia, invece, di prendere male la mira il nostro Parlamento, convinto di spuntare una vittoria facile contro la corruzione mettendo in campo le misure di prevenzione. Una prima versione della riforma dell’articolo 4 del Codice antimafia estendeva, infatti, l’elenco dei destinatari di tali misure addirittura a coloro che fossero indiziati della commissione anche di un solo delitto contro la pubblica amministrazione: e non solo dei delitti più odiosi e più gravi (come concussione e corruzione), ma anche dei delitti di minore entità. Sarebbero, insomma, bastati indizi anche di un singolo episodio di peculato (magari commesso profittando dell’errore altrui) o di indebita percezione di erogazioni pubbliche (magari un’indennità di disoccupazione continuata ad essere incassata qualche mese dopo la riassunzione) per andare incontro alla confisca dei cespiti patrimoniali di cui non si fosse riusciti a dimostrare la legittima provenienza. Con conseguente massimo stridore tra la precarietà dell’indizio (anche di un delitto non particolarmente grave) e la definitività della confisca (anche di tutto il patrimonio).
Tranne che per la truffa aggravata, il Senato sembra aver abbandonato tale improvvida via, subordinando ora l’applicazione delle misure di prevenzione, in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, alla presenza di indizi dell’esistenza di un’associazione finalizzata al compimento di tali delitti. Questa modifica ridimensiona le perplessità sopra espresse, ma ne fa sorgere altre, legate alle ben scarse chance di effettiva applicazione di una siffatta previsione, se non a costo di un’altissima tensione coi principi fondamentali: basterebbero, infatti, indizi, e non certo prove, di un’associazione per delinquere semplice, quindi di un’associazione di per sé priva di quei connotati, capaci invece di rivelare – anche a prescindere dalla commissione di reati – l’esistenza di un’associazione mafiosa.
Il dibattito, anche convulso, che in questi giorni ha accompagnato l’iter parlamentare ha peraltro messo nell’ombra un immportante rilievo. In realtà le misure di prevenzione già oggi sono applicate dai nostri giudici anche contro soggetti che hanno accumulato ricchezze a discapito della corretta gestione della cosa pubblica. Solo che i nostri giudici – ben consci della micidialità dell’arma – hanno preso bene la mira, applicando la confisca solo ai colletti bianchi abitualmente dediti alla commissione di delitti o che abitualmente vivano di proventi delittuosi (utilizzando, quindi, le categorie della pericolosità cosidetta comune di cui all’articolo 1 del Codice antimafia). È proprio l’elemento dell’abitualità, infatti, che rende fondata la presunzione che una ricchezza sproporzionata sia di provenienza illecita.

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